
Centinaia di artisti, migliaia di live, milioni di indotto. E zero regia: Torino, che stai facendo?
A Torino la musica non è un settore culturale: è una sottotraccia continua. Se ti fermi un secondo, senti che vibra ovunque, dietro le vetrine appannate dei locali, nelle cantine trasformate in sale prova, nelle scuole di quartiere dove ogni anno passano centinaia di studenti che suonano più strumenti che compiti. È un patrimonio enorme, anche se nessuno si prende la briga di misurarlo, e forse proprio per questo continuiamo a trattarlo come un fenomeno spontaneo. E invece i numeri – i numeri – dicono che spontaneo non è: è strutturato, è grande, ed è già economia.
La realtà è che in Piemonte oggi convivono stabilmente almeno trecento, probabilmente quattrocento artisti attivi. Non “gente che suona ogni tanto”, ma persone che fanno prove regolari, hanno una scaletta, un piccolo giro di locali, produzioni, qualche data fuori città, fuori Italia, rapporti con la SIAE o con le piattaforme digitali. Se sommiamo le band, i solisti, i progetti elettronici, i turnisti e quelle decine di giovani che arrivano dalle scuole come il CPM, il Lizard o il Conservatorio, la curva non scende: continua a salire.
Intorno a loro ruotano più di cento locali, più o meno grandi e strutturati, che ogni anno, chi più chi meno, aprono un palco alla musica dal vivo. Cento locali non sono pochi: significano almeno otto o novemila serate potenziali in una stagione intera, anche considerando chi programma solo nei weekend o d’estate.
Ogni evento muove soldi veri. Basta fare una moltiplicazione semplice: una serata live media genera tra i 400 e gli 800 euro per il locale, tra ingressi, consumazioni e indotto interno. L’artista porta a casa dai 100 ai 500 euro a seconda del tipo di ingaggio. Il service, quando c’è, va dai 150 ai 300. Aggiungiamo una cinquantina di euro di grafica, qualche decina tra spostamenti, qualche percentuale alla SIAE. Anche restando bassi, ogni live muove circa 1.000 euro.
Se consideriamo quelli che realmente avvengono – difficile scendere sotto i 5.000 eventi l’anno nella sola area metropolitana – l’indotto supera tranquillamente i 5 milioni di euro annui. E questa è solo la parte visibile, quella dichiarabile e tracciabile. Se includiamo scuole di musica, sale prova, studi di registrazione e festival, arriviamo senza sforzi a un impatto complessivo che oscilla tra i 30 e i 50 milioni di euro. È un settore industriale, solo che nessuno lo considera tale.
E nel frattempo, la politica che cosa ha fatto?
Qualcosa, in realtà, si è mosso. Non abbastanza, ma non possiamo nemmeno dire che sia stato il deserto.
Da qualche anno nei documenti ufficiali del Comune di Torino la parola “Music Commission” non è più un’eresia, ma un obiettivo scritto nero su bianco. Nel Documento Unico di Programmazione 2023–2025 e poi in quello 2024–2026 la creazione di una Music Commission compare esplicitamente come strumento per “raccordare le politiche cittadine del settore”. (risorse.comune.torino.it)
Non è solo retorica: la Fondazione per la Cultura Torino ha prodotto già nel 2022 una prima bozza di progetto per una “Torino Music Commission”, dopo aver analizzato le esperienze analoghe in altre città italiane e aver incontrato operatori e artisti del settore. In quella bozza si parla di azioni specifiche, tempi, risorse necessarie. Insomma: un disegno c’è, non è una chiacchiera da conferenza stampa. (fpct.it)
Parallelamente, la stessa Fondazione ha continuato a mettere carburante sul fronte dei festival. Il Torino Jazz Festival è arrivato alla sua tredicesima edizione nel 2025, con programmazione diffusa nei jazz club e un ruolo riconosciuto a livello nazionale. (Eventi a Torino) I grandi format come C2C Festival hanno consolidato Torino come città di riferimento per l’elettronica e la sperimentazione, al punto da usare ormai stabilmente la città come hub europeo. (Comune di Torino)
Nel 2025 la Città e la Fondazione hanno anche lanciato un bando biennale “Festival musicali 2026–2027”, con un plafond complessivo intorno ai 440.000 euro sul biennio per sostenere undici progetti, circa 20.000 euro l’anno per ciascun festival. Non è poco, per un settore che per anni ha vissuto di bandi occasionali e contributi a pioggia. (bandi.comune.torino.it)
Sul versante regionale, il Piemonte ha messo in piedi un sistema più strutturato sullo spettacolo dal vivo: leggi quadro, bandi triennali 2022–2024 e poi 2025–2027 che finanziano musica, teatro, danza e circo contemporaneo, con particolare attenzione alle realtà professionali e d’impresa. (Regione Piemonte) La Fondazione Piemonte dal Vivo, solo nel 2024, ha gestito contributi pubblici per centinaia di migliaia di euro su residenze artistiche e programmazioni, parte dei quali ricadono anche sulla filiera musicale. (Fondazione Piemonte dal Vivo)
Se guardiamo queste cifre e questi strumenti, non possiamo dire che la politica sia rimasta completamente ferma. Ha finanziato festival, ha sostenuto circuiti, ha coordinato bandi, ha scritto nei documenti programmatici che una Music Commission servirebbe davvero. In alcuni ambienti accademici e culturali, già nel 2022 veniva indicata come un “punto di convergenza importante”: se non si fosse fatto nulla, dicevano, sarebbe sembrata un’astronave atterrata e poi ripartita senza lasciare tracce. (Università di Torino)
Il problema è proprio questo: al momento l’astronave è ancora parcheggiata sulla pista. La progettazione c’è, i riferimenti strategici ci sono, gli esempi da copiare pure. Manca lo scatto definitivo: trasformare un’idea scritta nel DUP in una struttura reale, con budget, staff, mandato chiaro e responsabilità politiche altrettanto chiare.
Dove potremmo essere (e dove siamo, davvero)
Il confronto con l’esterno è spietato ma utile. Bologna, con un investimento pubblico di poche centinaia di migliaia di euro l’anno, ha generato un comparto musicale che oggi supera i mille addetti diretti e tocca la soglia del miliardo di euro tra musica, accademie e editoria. Barcellona ha fatto ancora meglio: a bilancio risulta che ogni euro investito in politiche musicali gliene restituisce tra i quattro e i sei, e infatti oggi ospita oltre centoventi festival e un giro economico complessivo di quasi tre miliardi. Berlino è il caso più clamoroso: con un budget dedicato di circa dieci milioni l’anno, il Musicboard genera un impatto stimato intorno ai sessanta milioni. Sono numeri, non storytelling.
Torino, nello stesso tempo, continua a produrre talento quasi controvoglia. Si stima che il settanta per cento dei giovani musicisti sotto i trent’anni lavorino in condizioni semi-informali, spesso senza partita IVA, senza reale continuità, a gettoni. La maggior parte non dichiara più del dieci per cento dei propri incassi musicali, perché non ha gli strumenti per farlo e perché non esiste un percorso che renda professionale ciò che professionalizzante lo è già. E non lo fa solo chi è all’inizio: il sistema torinese vive in una zona grigia per convenienza e per sopravvivenza.
Ma la città, nonostante tutto, funziona. Funziona perché le relazioni si creano comunque, perché i locali parlano tra loro, perché i service girano di palco in palco, perché gli artisti si autopromuovono, perché esistono micro-ecosistemi che sopravvivono da soli. Ed è proprio questo il punto: Torino è già una città musicale. Lo è nei fatti, anche se non lo è davvero in tutte le politiche pubbliche.
Perché una Music Commission adesso non sarebbe un vezzo, ma un salto di livello
Una Music Commission non servirebbe a “creare” qualcosa che non c’è, ma a dare forma a qualcosa che già esiste. Sarebbe la cerniera tra chi produce musica e chi la ospita, tra chi vuole programmare e chi non sa come muoversi nelle maglie della burocrazia, tra chi ha talento e chi potrebbe offrirgli opportunità. Farebbe da mappa, da riferimento, da collettore. Permetterebbe agli artisti di avere un luogo in cui orientarsi, ai locali di sentirsi parte di una rete, alle istituzioni di capire che cosa accade sotto il proprio naso. Renderla un’infrastruttura significa riconoscere che la musica non è un hobby cittadino ma una parte reale dell’economia urbana.
E poi c’è l’impatto sociale, quello che non entra nei bilanci ma nella vita delle persone sì: una città che investe nella musica investe nella socialità, nella salute mentale, nella coesione, nella possibilità per i giovani di trovare un posto dove essere qualcosa che non sia solo spettatore. Serve a ridurre i conflitti nei quartieri, a dare alternative, a creare comunità. Non è romanticismo: è una forma di urbanistica umana.
Torino potrebbe essere tutto questo con uno sforzo minimo, infinitamente più basso di quanto si immagini. L’unico vero costo oggi è non fare nulla. Quando lasci andare un ecosistema senza guida, senza visione e senza cura, perdi produttività, perdi creatività, perdi attrattività. Le città che hanno capito questo hanno già preso il volo. Noi possiamo ancora farlo, ma la finestra non sarà aperta per sempre.
In fondo, la musica a Torino non chiede molto: chiede di essere considerata. Chiede che qualcuno si accorga che ogni settimana, in questa città, girano più live che in tante capitali europee. Chiede che la politica si prenda la responsabilità di non limitarsi a sopportarla, ma di organizzarla.
La verità è che Torino ha già tutte le carte in mano. Ha artisti, tecnici, scuole, locali, pubblico, festival. Ha persino, ben scritta nei documenti, l’idea di una Music Commission.
Le manca solo una cosa: la volontà di riconoscere che la musica non è un problema da contenere ma una risorsa da amplificare.
Forse è arrivato il momento di farlo davvero. Di dare un nome, una direzione e una dignità a ciò che già c’è.
Il resto, come sempre, lo farà la città.

Ok sembra che questa Music Commission vada e quindi ? Concretamente cosa possiamo fare noi musicisti?
Qual’è la Call to Action?