Capitolo I –Cronaca semiseria di una cena al curry

(Sì, è tutto successo davvero. Lo giuro sulla salsa al curry. L’unica cosa che non troverete — per precisa scelta — è il mio nome: in certe serate conviene restare anonimi. Cazzo ma questo è il mio sito)
Quando Karim mi ha invitato al suo cinquantesimo compleanno, ho detto sì, perché gli voglio bene — come si dice sì a un controllo di routine: sai già che ti farà male, ma lo fai lo stesso.
Ci conosciamo da vent’anni, e a un certo punto l’amicizia diventa un’abitudine come lavarsi i denti: non puoi smettere.
Ha invitato anche Elisa, naturalmente.
Lei ha annuito con quel silenzio che fa più rumore di qualsiasi discorso.
Io ho annuito a mia volta, come uno che firma una liberatoria prima di un esperimento.
Il ristorante era indiano, non per scelta estetica ma per cambio generazionale.
Lanterne arancioni, pareti color curcuma e un odore persistente di spezie che sembrava voler coprire ogni errore umano.
Sulle pareti, elefanti e divinità sorridenti: la solita spiritualità d’arredo. Bello, eh. In foto.
Non era il locale a preoccuparmi. Erano gli invitati.
La compagnia storica del bar di Paolo: ecosistema fragile. Storie finite, amicizie elastiche, conti sospesi, “ci pensiamo domani”, e rancori gestiti a colpi di spritz.
E naturalmente c’era lui: Federico.
L’uomo che era stato con Elisa per qualche mese. Quello che cammina come se il pavimento gli dovesse delle scuse. Duro di facciata, di quel genere che al bar non ama nessuno ma tutti tollerano per non cambiare tavolo.
Intelligente, tormentato, nessuno sa da cosa, ma è un tormento così ben fatto da sembrare vero.
Arriviamo alle nove e cinque, in ritardo come sempre.
Tutti fuori con un bianco in mano: l’aperitivo infinito della provincia italiana, dove la temperatura percepita è sempre “si stava meglio ieri”.
Io abbasso il finestrino, saluto largo: sì, siamo arrivati insieme, apprezzate lo spettacolo, siamo ancora vivi nonostante tutto.
Elisa mi guarda: silenziosa, compatta, un chiaroscuro.
C’è imbarazzo, ma è uno di quei sentimenti che non trovano mai il microfono.
Io penso: bene, ora balliamo con i demoni.
Dentro: stretta di mano, stretta di mano, sorriso a batteria scarica.
Paolo, Chiara, Leo, il Rosso, il solito zoo umano.
Poi Federico.
“Ciao.”
“Ciao.”
Due proiettili a salve. Nessun ferito, per ora.
A tavola mi metto al centro, non per vanità ma per controllo.
Karim è a capotavola, sultano in versione “padrone del destino e del dessert”, alza la bottiglia e versa vino a tutti, con la solennità disarmante di chi crede ancora che un brindisi possa sistemare il mondo.
“A noi,” dice.
E per un attimo siamo davvero “noi”: anche Federico, anche Elisa, anche io.
Elisa è accanto a me, silenziosa come una finestra chiusa in pieno agosto.
Di fronte, Chiara: ex amica, oggi esperta di etica altrui applicata a caso.
Accanto a Elisa, Speedy: soprannome ereditato dai vent’anni; del nome vero non si ricorda nessuno, neppure lui, credo.
Non troppo brillante, ma simpatico: un golden retriever con il bicchiere pieno.
Io attacco il bianco. Non per brindare: per zittire i tamburi nelle tempie.
Trenta minuti, quasi un litro.
Il cameriere mi guarda come si guarda un incendio controllato.
Lo psicologo del gruppo, Sandro, mi osserva con tenerezza professionale: diagnosi silenziosa, parcella mentale.
Elisa, intanto, parla soprattutto con Speedy.
Lui si lamenta di quelli che gridano alle vecchiette a bordo vasca.
Lei lo ascolta con pazienza e gli racconta che nella sua palestra le insegnanti sono gentili.
Ogni volta che lei risponde, lui, serio, convinto, le dice:
“Non allisciare il pelo al lupo.”
Come se fosse ovvio che lei ci stesse provando.
Come se fosse automatico che lui, di conseguenza, dovesse concedersi.
Elisa sorride appena e lo guarda con quella compassione crudele che solo le persone molto intelligenti e un po’ stronze sanno usare.
Verso fine cena, Speedy si alza e si avvicina a un tavolo accanto, dove siedono quattro donne sole.
Comincia a fare il provolone, a modo suo: battute, sorrisi, un ginocchio troppo avanti.
Noi, dal nostro tavolo, lo guardiamo come si guarda una scena di teatro amatoriale.
“Guarda Speedy,” dice qualcuno, “è andato al tavolo delle lesbiche.”
Risate generali fuori luogo. Non faceva ridere!
Lui continua, imperterrito, convinto di star scrivendo un capitolo di Don Giovanni versione provincia ovest.
A un certo punto Speedy torna al tavolo e, per stemperare il gelo, lancia la sua perla:
“Quelli che fanno gli spiritosi con le vecchiette in piscina… io li spaccherei di botte.”
Il tavolo ride.
Io no. Forse non sento.
È palese che parla di Federico, istruttore di nuoto per signore di mezza età. Repertorio fisso: battuta, spallata, sorriso da poster del 2003. Durezza fai-da-te.
Elisa me lo sussurra all’orecchio. Io mi alzo.
Raggiungo Speedy.
“Ce l’hai con lui?”
“Eccome,” fa lui. “È un pezzo di merda.”
“Vieni fuori. Ti racconto una storia.”
Fuori, odore di fritto, vento, vino.
Speedy ha la faccia tesa di chi non sa se deve menare o chiedere scusa.
Io lo calmo, o almeno ci provo, con quella voce che calma gli altri e incendia il resto.
“Non stasera, non è il luogo, non è il modo,” gli dico. “È il compleanno di Karim.”
“Se comincio io, finisci tu?”
“Non stasera,” ripeto.
Dieci minuti così, sulla linea sottile tra onore e cabaret.
Poi rientriamo.
La cena intanto degenera dolcemente.
Avviso Paolo: “Occhio, Speedy vuole menare Federico.”
Paolo fa il mediatore di mestiere: lo prende da parte, gli parla, annuisce.
Chiara entra in scena con la grazia di un colpo di tosse in biblioteca:
“Ragazzi, basta drammi.”
Risultato: più drammi.
Speedy sembra calmarsi.
Mi avvicino, per sicurezza.
Chiara mi punta. Lei mi accusa di averlo caricato.
Dice che Federico è un bravo ragazzo, che non merita tutto questo.
Un bravo ragazzo, tormentato, intelligente, irresistibile, il classico disastro ambulante.
E via con l’elenco: amico, cliente, contribuente modello.
Io nego. Forse ho detto cose ambigue, ma non ho acceso micce. Solo mosso un po’ d’aria.
E allora succede: Federico si alza.
Prende la giacca con quel gesto da film minore.
Ha gli occhi lucidi, la versione low cost della durezza.
Mi viene vicino, mi dà la mano.
“Mi dispiace per la serata,” gli dico.
“Tu non c’entri un cazzo?”
“No. Anzi, l’ho fermato.”
“Sei sicuro?”
“Sì. E pensa che avrei tutti i motivi per volere il contrario.”
Mi stringe più forte. Poi, piano, da copione:
“Toglimi ‘sta cazzo di mano di dosso.”
Gliela tolgo.
Sorrido. Non di cattiveria: di incredulità.
A volte la realtà è una parodia con budget ridotto.
Il momento esatto in cui il dramma si trasforma in farsa.
Esce lui. Se ne va con l’aria di chi porta via la parte migliore della serata: spalle rigide, passo controllato, offeso quanto basta perché tutti lo notino.
Chiara mi aggredisce di nuovo. Io alzo la voce, lei abbassa lo sguardo, cala il sipario.
Fine atto.
Passano dieci minuti, Speedy va a prendere la sua bici, modello “ho investito troppo per pedalare poco”, e scopre che manca il sellino.
“Quel figlio di puttana me l’ha rubato! Cinquecento euro di sellino!”
Cinquecento euro: probabilmente in pelle di palle di unicorno.
Nessuno ci crede.
Paolo chiama Federico: lui nega con convinzione teatrale.
La verità? Siamo in periferia: i sellini migrano.
Speedy rientra nel locale, ancora un po’ stordito.
“Ragazzi,” dice, “scusate se ho alzato i toni. Ho bevuto troppo. Non volevo rovinare la serata.”
Lo dice con quella sincerità goffa che fa tenerezza, e per un attimo nessuno sa cosa rispondere.
Karim osserva in silenzio, il bicchiere ancora in mano, con quell’aria mite di chi sa che nelle comitive la pace è un lusso e che stasera, tutto sommato, è andata bene.
La festa si scioglie.
Lucine che lampeggiano sull’altare, qualcuno paga il conto, brindisi finale fatto con l’acqua perché il bianco è finito da un pezzo.
Torniamo a casa, io ed Elisa.
Silenzio. Quel silenzio che rimette in fila i mobili.
Poi lei:
“Sei stato tu a spingere Speedy contro Federico?”
“No. Non era il posto, non era il momento, non era il luogo. Era il compleanno di Karim”
“E allora perché Speedy ce l’ha con lui?”
“Perché Federico lo sfotte al bar.”
“Per cosa?”
“Perché Speedy ha la bici con la pedalata assistita.”
Elisa ride.
Io anche.
Ridevamo come due sopravvissuti a una guerra scoppiata per un caricabatterie.
E dentro quella risata c’era tutto: l’orgoglio ferito, il bianco finito, il passato che non impara mai e la meravigliosa, irriducibile, comicissima capacità umana di trasformare un difetto di ego in una tragedia greca con contorno di pollo al curry.
Eppure, sotto la risata, restava un piccolo silenzio, come un retrogusto di zafferano che non andava via. Il ricordo preciso di tutto quello che non avevamo detto.
Amo il curry.
