Capitolo V: la seduta che nessuno ha chiesto, ma che io ho fatto lo stesso

Il ristorante quella sera sembrava scelto per stressare le strutture emotive di chiunque ci mettesse piede. Troppi tessuti colorati, troppe lanterne, troppe statue che ti fissavano come se sapessero già cosa avresti sbagliato di lì a poco. Avevo il sospetto che l’arredatore fosse stato pagato a quantità e non a gusto. L’odore di curry, poi — quello spinge l’inconscio di chiunque verso un’ipersensibilità imbarazzante.
Chiara entra, e l’ambiente si ricompone come se fosse arrivato il direttore d’orchestra di un concerto che non sapevamo di star suonando. Lei sceglie un posto di lato, strategico, da cui dominare senza sembrare dominante. Chiara non si siede mai: si posiziona. È un’arte. E un disturbo.
Paolo si siede con la calma di un uomo che nella vita ha smesso di combattere contro le maree. Gli basta stare là, vicino a lei, come fosse il suo contrappeso emotivo. Lo fa con la serenità di chi sa che non vincerà mai, ma ha deciso che non è importante.
Poi entra Elisa.
E con lei, il vuoto.
Non è un vuoto mistico o seducente: è un vuoto funzionale.
Una donna che parla poco per non dover mai dire “ho sbagliato”.
Un silenzio che la protegge dall’essere smascherata: se non ti esponi, nessuno può colpirti.
Percepisco la sua postura: raccolta, elegante, sintetica. È come vedere una persona che annacqua il proprio profilo perché ha capito che più colore metti, più persone si accorgono delle sbavature.
Il suo compagno arriva subito dopo.
Ha quell’aria da uomo che ha smesso di amare e ha iniziato a misurare i danni.
Si siede accanto a lei, ma un po’ obliquo, come a dire: sono qui, ma non per te.
Una posizione che comunica distacco non ostile:
“Non ti odio. Sono solo stanco di ciò che mi hai fatto diventare.”
Stefano, invece, è già lì da qualche minuto.
Lo avevo notato subito. Gli uomini come lui si notano per forza: parlano con le mani prima che con la bocca.
E le sue mani quella sera erano impegnate a eseguire un concerto dei Red Hot Chili Peppers mentre la voce produceva un seminario in diretta tra filologia e informatica. Voglio bene a Stefano, abbiamo studiato insieme alle superiori. Non è mai cambiato
Un intreccio confuso di concetti che sarebbe stato interessante se non fosse stato guidato da uno che pensa che spiegare equivalga a sedurre.
Lui si siede dove può espandersi meglio: un posto che gli permette di agitare gli avambracci senza colpire nessuno.
L’espressione “occupare spazio” con lui è letterale.
Poi vedo Speedy.
Speedy non si siede, cade sulla sedia.
Cade esattamente davanti a Elisa, che nel suo mondo pulsante di ormoni e speranze è la collocazione più rischiosa e più irresistibile.
Il posto laterale è quello di chi cerca approvazione, ed è anche quello che non si dovrebbe mai dare a un uomo che ha il bisogno disperato di essere guardato come se valesse qualcosa.
È un bambino grande che si collega al Wi-Fi emotivo della persona più disponibile.
Federico arriva con il suo solito passo da uomo che tenta disperatamente di sembrare intelligente.
Non lo è, ma ha studiato quanto basta per imitare quelli che lo sono davvero. Sa recitare profondità: testa inclinata, pausa strategica, sguardo finto-intenso che funziona solo con chi vuole crederci. È un bluff umano, una di quelle persone il cui intero fascino si regge sull’intonaco del “quasi”. Quasi interessante, quasi brillante, quasi colto.
Si siede leggermente di lato, nella posizione più narcisistica che esista: quella scelta da chi vuole essere notato senza assumersi la responsabilità di chiederlo. Una postura studiata, un catalogo vivente di micro-atteggiamenti presi in prestito da uomini migliori.
Io lo so.
Lo so perché Federico è prevedibile come una ricetta imparata a memoria. E infatti: ne ha due — letteralmente due — che propone a rotazione ogni volta che invita una donna a casa sua. La carbonara “rivisitata” (rivisitata male) e le trote al forno sotto sale.
Per il resto, conversazione minima: tre frasi fatte, due opinioni di seconda mano e un repertorio di silenzi che non sono profondità, ma semplicemente mancanza di materiale.
Il suo ego ha una postura anche seduto, certo.
Ma è la postura di chi teme che, se si muove troppo, il bluff gli crolla di dosso.
La cena inizia.
Speedy parla con Elisa come se le stesse confidando segreti di Stato.
Elisa annuisce con quella diplomazia stanca che adottano le persone che non vogliono né ferire né partecipare.
Speedy si illumina come un faro.
Io prendo appunti invisibili: quando un uomo fragile incontra una donna che lo ascolta, il disastro prende il numero.
Federico racconta un aneddoto sulle sue vecchiette in piscina.
Ride mezzo tavolo.
Speedy no.
Il suo volto si deforma in una gelosia irrazionale, di quelle che precedono il pensiero.
Chiara vede una fessura e ci si fionda dentro come un rapace con la sua preda.
Lo tocca, gli parla, sussurra mezze verità che servono solo a spostare la colpa da dove sta a dove vuole lei. Chiara ha il raro talento di convincere qualcuno che il terremoto è colpa della sedia che trema.
Elisa si alza e va in bagno con la precisione di un animale che sente il temporale prima delle nuvole.
Il suo compagno la segue con lo sguardo, non per amore, ma per monitoraggio.
La rabbia non è più una fiamma: è brace che continua a scaldare anche quando sembra spenta.
Il compagno porta fuori Speedy.
Lo riporta dentro.
E Speedy torna più confuso di quando è uscito, come se avesse avuto una conversazione importante senza aver capito una parola.
Poi accade la parentesi comica più triste: Speedy decide di “calmarsi” parlando con quattro donne del tavolo accanto.
Sono signore di mezza età, ognuna con un bicchiere mezzo pieno e uno sguardo mezzo vuoto.
Lo osservano mentre tenta l’approccio, e la loro espressione è identica a quella del pubblico quando un prestigiatore sbaglia la prima mossa.
Non ostile, solo stanca.
Una di loro, la più alta, si sistema gli occhiali con l’aria di chi pensa “poverino”.
Un’altra sorseggia vino mentre lo studia come un fenomeno sociale, alla stregua di un documentario sull’accoppiamento tra gufi.
Una terza sorride per gentilezza, la quarta per pietà… e, per un attimo, anche per curiosità: la intriga l’idea molto concreta che andare a letto con un corpo senza cervello possa essere, se non edificante, almeno lungamente divertente.
Speedy, naturalmente, non lo capisce.
È convinto di essere vicino a qualcosa.
In realtà è vicino solo alla soglia del ridicolo.
Potremmo riscriverla così:
La tensione ritorna.
Federico parla ancora, ma ormai le sue frasi hanno il tono di chi sta difendendo una recita andata storta.
Speedy sbuffa, rumore pieno, tipico dei tori e degli uomini che non vogliono piangere davanti a un avversario.
Chiara annusa il dramma e lo rincorre con lo zelo di una cronista di guerra in un campo minato.
Stefano, convinto che tutta quell’agitazione derivi da qualche vecchia storia di concerti rock, osserva la scena come se stessero discutendo del miglior live dei Red Hot Chili Peppers.
Il compagno di Elisa, invece, resta imperturbabile: non è calmo, è semplicemente oltre. Ha finito la rabbia molto tempo prima di quella cena e beve. Anche io bevo.
Federico si offende.
Speedy esplode.
Il compagno di Elisa osserva tutto come un reduce che ha già visto la guerra una volta e non vuole tornarci.
Poi il sellino sparisce.
L’unico oggetto della serata che non aveva alcun conflitto emotivo, finalmente si libera.
A fine serata mi avvicino di nuovo al compagno di Elisa.
Non so perché lo faccio.
Forse perché lui è l’unico che non recita, l’unico che non nasconde l’infinita stanchezza.
Gli dico:
«Tu non sei arrabbiato perché la ami. Sei arrabbiato perché non sai più chi hai accanto… e continui ad amare l’eco di una memoria che non esiste più.» È la prima verità della serata.
Lui non ne è sorpreso.
Resto lì ancora un secondo, guardo il tavolo vuoto, le sedie storte, i bicchieri mezzi pieni, e penso:
Questa cena è stato un esperimento riuscito.
Non per il gruppo.
Per me.
Il curry era ottimo.
Loro, molto meno.
