La cittadinanza, quando smette di essere parola, diventa un mestiere delle mani. L’ho imparato dentro Torino Domani, di cui oggi sono presidente: un titolo leggero che vale solo se la squadra tiene il ritmo. Qui il singolo non salva nulla; al massimo apre la porta. Il resto lo fanno i compagni di viaggio: chi studia gli atti, chi telefona ai quartieri, chi si mette davanti al pubblico con la calma dei giusti. Io ci metto l’ossessione per le cose che funzionano e la testarda serenità di un progressista civico: la direzione è chiara, il come lo impariamo strada facendo, misurando senza esibire.
In Circoscrizione 7 ho capito che il decentramento non è una teoria, è una distanza accorciata. Un cittadino che non prende due tram per farsi ascoltare. Prima arrivavano richieste che si perdevano nella nebbia delle competenze; dopo—quando disegni un flusso semplice, un calendario che non mente, un canale che risponde—cominci a vedere numeri che hanno il sapore del reale: tempi di risposta dimezzati, decisioni prese in una sola seduta, progetti che, una volta avviati, non chiedono più scusa per esistere. Non è carità: è manutenzione della democrazia.
Il verde e i fiumi sono il capitolo che preferisco perché non applaudono. La Dora e il Po non scrivono post di ringraziamento. Il paesaggio è un bene pubblico silenzioso: quando respira, respiriamo tutti.
La partecipazione, se la fai bene, non è una rissa con il microfono. È metodo. Quel 3 ottobre 2024, al primo brainstorming di Torino Domani, abbiamo messo in fila tre tavoli—Decentramento, Cultura, Ambiente e Sostenibilità—con una promessa minima: arrivare a proposte che si possano firmare, non solo applaudire. Prima e dopo stavano lì, nella stessa sala: prima le buone intenzioni, dopo schede sintetiche con chi fa cosa, entro quando, con quali strumenti. Da allora ho imparato che il vero carisma di un’associazione è la sua capacità di generare procedure ripetibili: format d’incontro, modulistica chiara, scalette che proteggono le decisioni dalla retorica. La poesia viene dopo, se resta tempo.
Mi sono candidato alle regionali senza cambiare pelle: stessa linea, stesso fiato. Non per collezionare simboli, ma per portare su scala ampia quello che avevamo già collaudato nei quartieri: processi che accorciano la distanza, trasparenza che si può toccare, obiettivi che non si vergognano dei numeri. Ho scoperto che “civico” non è l’assenza di ideologia: è la sua prova del nove. Dire progressista, per me, significa scommettere ogni giorno sull’uguaglianza delle possibilità, e poi costruire gli attrezzi perché non resti uno slogan.

Torino Domani è la casa dove questo sforzo diventa coralità. Ci siamo passati di mano microfoni e responsabilità, abbiamo presentato libri scomodi perché i ricchi non vincono per decreto, abbiamo difeso uno sportello postale in un quartiere che qualcuno considerava periferia mentale, abbiamo dato voce a chi la voce non ce l’ha, e quando è servito abbiamo portato in Commissione atti che toccano la vita concreta—come nominare e contrastare la violenza economica sulle donne, che non fa rumore ma allaga l’esistenza. Ogni volta il trucco è stato lo stesso: se non puoi misurarlo, non stai governando; se non puoi raccontarlo semplice, non stai includendo.
Alla fine, Cittadinanza Attiva 2.0 è questo: l’arte di far scorrere corrente nelle connessioni giuste, perché le persone non restino a guardare il proprio tempo passare da dietro un vetro. Non c’è eroismo, non c’è miracolo: c’è una squadra, c’è un presidente che apre la porta e poi fa un passo di lato, c’è un consigliere che si ricorda perché sta lì. E c’è una città che, quando le offri strumenti onesti, torna a crederti. Il resto è rumore. Qui, invece, scorre.

