La musica è il posto dove le bugie non reggono più di quattro battute. O suoni, o fai scena: il resto è arredamento. Io ci abito dentro—tra sala prove, palco e control room—e ogni volta che spengo le luci capisco che tutto il resto della mia vita è un tentativo di tornare a quel punto esatto in cui il tempo si mette al passo col cuore.

Con i Proclama la canzone è un attrezzo affilato: pop-rock che non chiede permesso, arrangiamenti che tengono insieme pancia e ingegneria. Tagliamo dove suona giusto, non dove conviene. Con gli Electric Blue giro l’Europa a celebrare i Cranberries: Elvis alla batteria che respira come un metronomo vivo, Aldo al basso che è una strada maestra, Ilaria alla voce che non imita—traduce. Ogni città sposta appena l’accento: a Galway il pubblico canta più forte di noi, a Bremen ascoltano con una disciplina quasi religiosa, a Cardiff si balla sui ritornelli come se fosse un dovere civico. È lì che capisci perché i palchi esistono: per vedere persone sconosciute diventare una banda sola, per tre minuti.

Lo studio è il mio laboratorio a luci basse. Mac Studio come torre di controllo, conversione Antelope Orion 32 Gen3 per tenere tutto sincero, sessioni su Cubase e Pro Tools a seconda della guerra da combattere. La batteria entra pulita, spesso con il Midas MR18 quando serve velocità; il resto passa da una patchbay ordinata come un quaderno di terza elementare. Lavoro molto in the box: FabFilter Pro-Q3 per togliere l’aria che non serve, gate Steinberg quando il rullante va educato, Waves CLA-76 a mordere senza stropicciare, Lindell 80 Channel e Waves SSL E-Channel per dare ossa e pelle. Ho UAD Spark sempre acceso come una credenza di famiglia: non tutto serve, ma quello che serve è lì.

La chitarra è un patto con l’elettricità. Fractal FM9 per i palchi lunghi e i check corti: preset “Clean Irish” con un delay corto che respira, “Crunch Modern” che esce dagli arpeggi senza gridare, “Lead Air” con un boost educato: tre suoni, il resto è mano. Nessun trucco, solo qualche trick imparato per strada: accordare quando nessuno guarda, suonare più piano quando vuoi sembrare più forte, lasciare spazio al cantante come si lascia corsia a un’ambulanza.

Produrre significa scegliere cosa non registrare. I pezzi pop-rock che escono dallo studio non sono mai una collezione di plugin: sono una stanza che respira. Prima porto le canzoni in piedi—voce e chitarra, metronomo basso, due idee chiare. Poi metto insieme la spina dorsale: cassa e rullante al centro, basso a legare, chitarre come finestre, tastiere come luce che entra di lato. Alla voce di Ilaria tolgo perdono e aggiungo presenza: se una sillaba non regge a nudo, non la salverà nessun riverbero. Le clip le monto come piccoli racconti: dieci, venti secondi, la verità prima, il trucco dopo. Il calendario dei live non è un’agenda, è un ritmo vitale: prova, palco, ferri in custodia, ritorno a casa con le orecchie che ancora cantano.

La verità? In musica la libertà non è “suonare tutto”: è scegliere il necessario e difenderlo con una certa eleganza spietata. La setlist è una dichiarazione politica: cosa metti all’inizio dice chi sei, cosa lasci fuori dice quanto coraggio ti è rimasto. E se vuoi un numero, eccolo: una canzone funziona quando, finito il take, nessuno ha voglia di parlare. Le metriche essenziali sono il silenzio in regia, la pelle d’oca che non sai spiegare, il messaggio dopo il concerto: “quel brano nuovo mi ha sistemato la giornata”.

Dentro la creatività si sta così: mezzo secondo di vertigine, poi disciplina. Si ascolta più di quanto si suoni, si taglia più di quanto si aggiunga, si lascia che il pezzo diventi quello che è venuto a diventare. È un atto di modestia feroce. La musica ti educa alla realtà come poche altre cose: se sbagli, si sente; se fai il furbo, si vede; se ami, si capisce. Ecco perché, quando qualcuno mi chiede perché continuo, non ho una risposta elegante. Alzo il volume, attacco il jack, conto quattro. Il resto, se vale, si registra.

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