Un referendum costituzionale senza quorum, nato più da scontri politici che da esigenze dei cittadini.

Ho studiato parecchio diritto, questo sì. Nel tempo ho messo insieme anche due master, uno in Diritto e Contrattualistica d’Impresa e uno in Metodi Storico-Filosofici del Diritto. Lo dico non per fare curriculum, ma solo perché è giusto che chi legge sappia da dove guardo le cose: non sono un magistrato, non sono un giurista, sono uno che ha passato un po’ di anni sui testi di diritto e che oggi si incuriosisce quando vede spuntare una riforma costituzionale.

Questo non mi rende particolarmente competente sul tema specifico della separazione delle carriere. Anzi, è molto probabile che qualche tecnicismo mi sfugga e che un giurista “di mestiere” trovi punti da correggere. Però, proprio perché ho respirato per anni ragionamenti su istituzioni, poteri e responsabilità, sento il bisogno di provare a dire la mia, dichiarando fin dall’inizio che questo è il punto di vista di un cittadino che ha studiato, non la verità rivelata.

All’inizio degli anni Duemila, durante uno dei corsi più teorici che abbia seguito, ricordo una lezione in un’aula semi-vuota. Era inverno, i termosifoni andavano a giorni alterni e noi eravamo più concentrati sul caffè che sulla filosofia del diritto. Il professore, uno di quelli che ti ascolta poco ma ti osserva molto, a un certo punto disse una frase che allora mi era sembrata un po’ esagerata: “Spesso le grandi riforme non nascono dai bisogni dei cittadini, ma dai conti in sospeso di chi le scrive”. All’epoca l’ho archiviata come una battuta amara. Oggi, guardando questo referendum, mi torna in mente in modo fin troppo puntuale.

La cosa che mi colpisce di più di questa riforma, infatti, non è la tecnica giuridica, ma la capacità della politica, a destra e a sinistra, di usare soldi pubblici e strumenti importanti come il referendum non per migliorare la vita delle persone, ma per regolare i propri conti interni. È il punto da cui parto, prima ancora di entrare nei dettagli. Poi, nei limiti di ciò che so, provo a ricostruire cosa stiamo votando e perché.

La mia prima reazione, lo ammetto, è stata una certa tristezza. Non per nostalgie istituzionali, ma perché continuo a sperare in una politica matura, capace di rivolgersi ai cittadini prima che ai propri nemici interni. Sarebbe bello vedere un intervento sulla giustizia che parta dai bisogni delle persone comuni, non dal tentativo di identificare ogni tre anni un nemico diverso: prima i magistrati, poi i PM, poi le correnti, poi i giudici “troppo indipendenti”, poi un qualunque altro capro espiatorio utile alla narrazione del momento.

Detto questo, entriamo nel merito. La riforma riguarda l’organizzazione interna della magistratura e, di fatto, i quasi 9.600–9.700 magistrati ordinari in servizio. Non interviene sui tempi dei processi, sull’accesso ai tribunali o sulle condizioni materiali di chi cerca giustizia. Togliamo quindi dall’equazione l’idea che questo referendum sia pensato per migliorare la vita quotidiana dei cittadini: non è così. È una riforma di assetto, non di servizio.

La storia di questa discussione affonda le sue radici nella Costituente. All’epoca, si scelse consapevolmente un modello di magistratura unitaria, con giudici e pubblici ministeri appartenenti allo stesso ordine professionale. L’obiettivo era evitare che il PM diventasse uno strumento dell’esecutivo, come era accaduto durante il fascismo (FASCISMO!) Negli anni ’90, con Tangentopoli, il dibattito esplose nuovamente: molti politici iniziarono a vedere i pubblici ministeri come poteri da “contenere”, mentre una parte del Paese li considerava eroi della legalità. Da allora il tema torna ciclicamente, con tentativi di riforma che non sono mai arrivati a cambiare la Costituzione. Questa è la prima volta in cui il Parlamento vara una riforma organica che separa radicalmente giudici e PM, rimettendo in gioco quell’equilibrio originario.

Per capire davvero cosa votiamo bisogna chiarire che questo referendum non è abrogativo. Non serve il quorum. Se va a votare poca gente, il risultato è comunque valido. Il Parlamento non ha raggiunto la maggioranza qualificata dei due terzi, e quindi la Costituzione prevede la consultazione popolare. Il paradosso è che un tema complesso e poco discusso potrebbe essere deciso da una minoranza minuscola di elettori. Per una materia così delicata, questa asimmetria tra importanza e partecipazione è un elemento di fragilità democratica.

Il quesito che troveremo sulla scheda ricalca il titolo della legge: “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare”. Dietro questa formula neutra, la riforma opera una separazione totale delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, istituisce due Consigli Superiori della Magistratura autonomi e crea una nuova Alta Corte disciplinare. La separazione delle carriere significa concorsi diversi, percorsi diversi e l’impossibilità di cambiare funzione durante la vita professionale. La divisione dei CSM significa avere due organi di autogoverno distinti, ognuno con competenze proprie. L’Alta Corte disciplinare sottrae al CSM la funzione di giudicare i magistrati per condotte non conformi.

La separazione tra i due “quesiti” interni alla riforma — quello sulle carriere e quello sugli organi di autogoverno — è fondamentale per orientarsi. Il primo riguarda la struttura stessa della funzione giurisdizionale: una scelta netta tra due modelli opposti, quello unitario e quello accusatorio estremo. Il secondo ha ricadute più organizzative e istituzionali: come vengono nominate le toghe, chi decide le loro carriere, come vengono sanzionate. Sono due piani concettuali diversi, fusi però in un unico voto.

Sul piano pratico, la riforma presenta anche una serie di rischi applicativi non banali. La creazione di due CSM e di una nuova Corte comporta tempi di avvio, regolamenti, procedure, strutture amministrative e costi di gestione. La separazione delle carriere impone un ripensamento immediato dei percorsi di reclutamento e formazione. Ci sarà bisogno di nuove regole sulle assegnazioni, sui trasferimenti, sulle valutazioni di professionalità. È difficile immaginare che tutto questo avvenga senza rallentamenti, contestazioni o conflitti di competenza. In un sistema giudiziario già affaticato, l’inserimento di queste novità rischia di generare ulteriori ritardi almeno nella fase transitoria.

Poi c’è la politica, che su questo tema si muove come in una coreografia che conosce fin troppo bene. Il centrodestra sostiene in massa il Sì, ufficialmente per ragioni di terzietà del giudice e modernizzazione del processo penale. In realtà, pesano anche anni di scontri con procure percepite come “militanti”. Dall’altra parte, il Partito Democratico e il Movimento 5 Stelle difendono il modello unitario, temendo che separare i destini di giudice e PM apra la strada a future pressioni politiche sull’azione penale. (parlavamo poco sopra di fascismo!). Anche qui, le motivazioni ufficiali sono nobili; quelle politiche, meno dette, sono il frutto di una lunga storia di rapporti complicati tra la magistratura e i partiti.

Il risultato è che il dibattito si riduce a un confronto identitario, dove ognuno difende il proprio immaginario. Il centrodestra vede nel PM un potere troppo forte. Parte della sinistra vede nel PM un potere troppo fragile. I riformisti liberali vedono in questa riforma un’occasione per distinguersi intellettualmente da entrambi. E in mezzo, i cittadini guardano a un referendum che incide pochissimo sulla loro vita quotidiana, mentre la politica lo usa per equilibrismi interni.

Mi colpisce sempre la distanza tra i grandi discorsi e le reali priorità delle persone. Questa è una riforma che riguarda circa diecimila magistrati, non le centinaia di migliaia di cittadini che aspettano anni per una decisione. È una riforma che parla della struttura, non del servizio. E forse, lo ammetto con un filo di amarezza, è anche una riforma che mostra quanto sia ancora lontana una politica capace di usare il potere non per dimostrare qualcosa a se stessa, ma per migliorare la vita di chi dovrebbe rappresentare.

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