Askatasuna, la città reale e quella che fingiamo di vedere
Da settimane Askatasuna è di nuovo ovunque: nei titoli dei giornali, nelle dirette televisive, nelle chat di quartiere e perfino nei discorsi dei bar dove solitamente l’unico conflitto ammesso è tra caffè corto o lungo.
Torino, come spesso accade, riesce a rendere incandescente qualunque tema appena supera i 20 gradi di complessità. E Askatasuna ne ha almeno 40.
La sentenza del maxiprocesso ha escluso l’associazione a delinquere all’interno del centro sociale, pur confermando condanne individuali per episodi specifici. Dati alla mano, non un’assoluzione collettiva né un marchio di infamia eterna.
Nel frattempo il clima si è scaldato: mobilitazioni, l’assalto alla redazione de La Stampa, dichiarazioni allarmistiche della Prefettura e un Governo nazionale che, appena sente la parola “centro sociale”, attiva la modalità Ruspa Deluxe Edition.
Scrivo queste righe come parte delle Istituzioni
Vuol dire che cammino fisicamente nei luoghi di cui qui si parla, ascolto residenti, respiro gli odori — belli e meno belli — del territorio.
E soprattutto significa una cosa: ho la responsabilità di non raccontare favole.
Askatasuna non è un simbolo: è un luogo vissuto
Da anni Askatasuna è — piaccia o non piaccia a chi vede il mondo solo in HD bianco e nero — un hub culturale, uno spazio attraversato da generazioni diverse.
Concerti, assemblee, iniziative sociali, percorsi politici, momenti di comunità: questo è ciò che centinaia di persone ricordano quando parlano di Askatasuna.
Non è tutto oro, non è nemmeno un inferno.
È semplicemente un pezzo di Torino reale.
E la Torino reale, si sa, non entra mai negli slogan.
Non piace ai talk show, non sta comoda nei tweet da 80 caratteri.
A volte non sta comoda neanche ai comunicati istituzionali.
Eppure è quella con cui dobbiamo fare i conti.
Le criticità ci sono, ma non giustificano la politica dal manganello facile
Non serve negarlo: conflitti ci sono stati e ci sono.
Violenza, tensioni, opacità: chi vive qui lo sa, e io per primo non minimizzo.
La città non può accettare spazi senza responsabilità o trasparenza.
Ma la risposta securitaria della destra — quella del “sgomberiamo subito, poi si vedrà (forse)” — è una scorciatoia retorica che funziona solo in televisione.
Nella realtà fa danni: crea vuoti urbani, accende tensioni, produce fantasmi più grandi dei problemi che prometteva di risolvere.
Il punto è che il conflitto non lo governi spingendo a sirene spiegate.
Il conflitto lo governi costruendo regole, responsabilità, percorsi.
Il patto di collaborazione: non un favore, ma un metodo
Il Comune ha proposto un percorso diverso:
trasformare l’immobile occupato in un bene comune attraverso un patto di collaborazione.
Cosa significa davvero?
Significa che lo spazio, se vuole continuare a vivere, deve farlo dentro una cornice chiara:
impegni verificabili, trasparenza nelle attività, responsabilità verso il territorio, attenzione alla quiete e alla sicurezza dei residenti.
Non è un condono.
Non è una stretta di mano sotto al tavolo.
È — finalmente — la politica che prova a fare politica.
E sì, approvo questa strada, perché è l’unica che riconosce la complessità invece di scappare da essa.
Preferisco mille volte un tavolo difficile a uno sgombero facile.
Askatasuna è un circuito interrotto. E gli interruttori servono a riattivare, non a bruciare tutto.
Negli anni attorno a quello spazio si sono creati circuiti umani veri, che hanno attraversato la città e, nel bene e nel male, l’hanno fatta muovere.
Sono circuiti oggi un po’ arrugginiti, certo.
A volte disordinati.
A volte rumorosi.
Ma sono vivi.
E quando una città spezza ciò che è vivo, crea solo silenzi più difficili da governare.
Qui serve esattamente l’opposto:
rinsaldare, ricucire, mettere ordine mantenendo la vita, non sterilizzandola.
Torino ha talmente tanta paura dei luoghi vivi che, se potesse, metterebbe in vigore un coprifuoco per le emozioni dopo le 22.
Eppure, una città senza emozioni rischia di diventare un museo delle intenzioni.
Le domande che decidono chi vogliamo essere
Alla fine tutto si riduce a poche domande semplici e micidiali:
- vogliamo una città che cancella ciò che non capisce, o una città che prova a interpretarlo?
- vogliamo trasformare gli spazi pubblici in beni comuni, o in problemi da spostare più avanti?
- vogliamo governare il conflitto, o limitarci a temerlo?
- siamo capaci di integrare partecipazione e sicurezza, o le useremo sempre come armi l’una contro l’altra?
Perché in tutto questo, la domanda su Askatasuna è in realtà una domanda su Torino.
E la domanda su Torino è una domanda su di noi.
Io so da che parte sto.
Verso una città che, quando trova un nodo, non stringe più forte — lo scioglie.
Verso una città che rinforza i suoi circuiti umani invece di reciderli.
Verso una città che non ha paura di trattare la complessità come ciò che è: l’unica strada per diventare adulta.
Se vuoi capire meglio in che direzione sto andando e cosa faccio quando non scrivo qui sopra, puoi partire da questa pagina: → Cosa faccio
