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C’è un punto esatto, nelle nostre strade, in cui la città finisce e inizia qualcos’altro. Un bordo sottile, quasi invisibile: non è un confine, non è un muro, non è nemmeno una linea tracciata sulle mappe. È una soglia fatta di abitudini, di sguardi che scivolano via, di porte che non si aprono mai davvero. Da una parte ci siamo “noi”. Dall’altra ci sono loro, quelli che la mia sinistra (anche quella civica), quando vuole essere elegante, chiama nuovi cittadini.
Ma la verità è che, per ora, cittadini non lo sono ancora. E non perché non vogliano esserlo.

Nelle nostre città vivono comunità che arrivano dal Nord Africa, dal Corno d’Africa, dall’Asia meridionale, dalla Cina, dall’Europa dell’Est, dall’America Latina. Parlano lingue che non conosciamo, cucinano profumi che non capiamo, portano con sé storie che spesso non ci interessa ascoltare. Sono migliaia, eppure sembrano pochi, perché vivono in una zona della percezione che sta appena sotto la soglia della nostra attenzione.
Ci conviviamo senza vederli davvero, come se fossero un rumore di fondo.

L’integrazione, oggi, non è un processo: è un percorso a ostacoli. La lingua, il lavoro, la burocrazia, la diffidenza sistemica. Ma il primo ostacolo, quello che li ferma prima ancora di iniziare, è la casa. Qui la città mostra la sua parte peggiore, quella che non compare nei depliant istituzionali. Gli affitti sono proibitivi per tutti, ma diventano impossibili per chi si porta dietro un cognome non italiano, un contratto fragile, una busta paga che non basta a rassicurare nessuno.
Una volta ho visto un agente immobiliare dire: “Il proprietario preferisce famiglie italiane”. Lo ha detto così, in un tono tra il burocratico e il paternalistico. Come se stesse parlando di un regolamento condominiale. Come se non ci fosse una discriminazione grande come una casa, letteralmente, in quelle tristi parole.

La marginalità non nasce da un gesto violento, ma da una somma infinita di micro-esclusioni. Non ti tollero nel mio palazzo, non ti assumo nella mia azienda, non ti vedo nella mia scuola, non ti riconosco come parte di questo posto. Alla fine ti chiudo in quartieri sempre uguali, dove tutto è transitorio, provvisorio, sospeso.
E così la città si divide in zone che non comunicano: centro e periferia, borghi e dormitori, italiani e nuovi cittadini. Linee che non si incontrano quasi mai.

La politica, in tutto questo, è rimasta indietro di una generazione intera. Parla di sicurezza mentre servirebbe parlare di futuro. Parla di emergenze mentre servirebbe parlare di cittadinanza. Parla di numeri quando dovrebbe parlare di persone. Manca la visione
Una politica illuminata dovrebbe invece prendere una decisione semplice: smettere di gestire la presenza dei nuovi cittadini, e iniziare a costruire con loro il futuro della città.

Vuol dire investire davvero sulla lingua. Non due ore alla settimana in una stanza triste, ma corsi diffusi nei quartieri, nelle scuole, nelle biblioteche. Vuol dire accompagnarli nel lavoro vero, non nei ghetti occupazionali dove finiscono sempre gli stessi. Vuol dire favorire la nascita di imprese, di attività commerciali, di luoghi che portino valore, non solo manodopera.
E soprattutto vuol dire affrontare il nodo delle case: garantire accessi equi, creare strumenti di tutela, mediare con i proprietari, incentivare gli affitti a canone moderato, fare in modo che un cognome esotico non sia più un ostacolo insormontabile.

I nuovi cittadini non sono un problema da sistemare, né una massa da governare. Sono, nel senso più letterale, la nostra possibilità di futuro.
Le città che hanno capito questo sono diventate più giovani, più dinamiche, più resilienti. Le altre, invece, continuano a invecchiare e a imitare se stesse, come attori che recitano da troppo tempo la stessa parte.

Forse il punto è proprio questo: non si tratta di “integrazione” come la intendiamo di solito, perché integrare qualcuno significa tenerlo ai margini abbastanza a lungo da farci decidere quando e come includerlo.
Si tratta di trasformazione. Di avere il coraggio di ripensare la città come un luogo che cambia grazie alle persone che la abitano nessuna esclusa. Di accettare che diventare italiani è un processo reciproco: loro imparano la nostra lingua, noi impariamo la loro presenza.

Un giorno, forse, non parleremo più di nuovi cittadini e vecchi cittadini. Parleremo solo di città. Di case abitate. Di strade condivise. Di destini che finalmente si intrecciano senza ricadere nelle vecchie paure.
Quel giorno, “noi” e “loro” non esisterà più. E la città, per la prima volta, si vedrà intera.

النص المترجَم إلى العربية


هناك نقطة دقيقة تمامًا، في شوارعنا، حيث تنتهي المدينة ويبدأ شيء آخر. حدّ رقيق، يكاد يكون غير مرئي: ليس حدودًا، ولا جدارًا، ولا حتى خطًا مرسومًا على الخرائط. إنّه عتبة مصنوعة من العادات، ومن نظرات تنزلق بعيدًا، ومن أبواب لا تُفتح أبدًا حقًا. من جهة هناك “نحن”. ومن الجهة الأخرى هناك “هم”، أولئك الذين تسميهم اليسار—حتى اليسار المدني—عندما يريد أن يبدو مهذبًا، “مواطنين جددًا”.
لكن الحقيقة هي أنهم، حتى الآن، ليسوا مواطنين بعد. وليس لأنهم لا يرغبون في أن يكونوا كذلك.

تعيش في مدننا جماعات قادمة من شمال إفريقيا، ومن القرن الإفريقي، ومن جنوب آسيا، ومن الصين، ومن أوروبا الشرقية، ومن أمريكا اللاتينية. يتحدثون لغات لا نعرفها، ويطبخون روائح لا نفهمها، ويحملون معهم قصصًا غالبًا لا نهتم بسماعها. إنهم بالآلاف، ومع ذلك يبدون قلة، لأنهم يعيشون في منطقة إدراكية تقع justo تحت عتبة انتباهنا.
نعيش إلى جانبهم دون أن نراهم فعلاً، كما لو كانوا ضجيجًا في الخلفية.

ليس الاندماج اليوم عملية، بل مسارًا مليئًا بالعقبات. اللغة، والعمل، والبيروقراطية، وانعدام الثقة المتجذّر في النظام. لكن العقبة الأولى، تلك التي توقفهم حتى قبل أن يبدأوا، هي السكن. هنا تُظهر المدينة أسوأ وجوهها، ذلك الوجه الذي لا يظهر في المنشورات الرسمية. فالإيجارات باهظة للجميع، لكنها تصبح مستحيلة لمن يحمل اسمًا غير إيطالي، أو عقدًا هشًّا، أو كشف راتب لا يكفي لطمأنة أحد.
لقد رأيتُ مرةً أحدَ الوكلاء العقاريين يقول: “المالك يفضّل العائلات الإيطالية.” قالها بنبرة تجمع بين البيروقراطية والوصاية، كأنه يتحدث عن لائحة داخلية للبناية، وكأنه لا يوجد في تلك الكلمات الكئيبة تمييزٌ واضحٌ وكبير… بقدر كِبر البيت نفسه.

الهامشية لا تولد من فعل عنيف واحد، بل من مجموعٍ لا نهائي من الإقصاءات الصغيرة. لا أقبلك في بنايتي، لا أوظفك في شركتي، لا أراك في مدرستي، لا أعترف بك جزءًا من هذا المكان. وفي النهاية أدفعك إلى أحياء متشابهة، حيث كل شيء مؤقت، انتقالي، معلّق.
وهكذا تنقسم المدينة إلى مناطق لا تتواصل: مركز وهامش، أحياء قديمة ومساكن مكتظة، إيطاليون ومواطنون جدد. خطوط لا تلتقي تقريبًا أبدًا.

السياسة، في كل هذا، تأخرت جيلاً كاملًا. تتحدث عن الأمن عندما ينبغي أن تتحدث عن المستقبل. تتحدث عن الطوارئ عندما ينبغي أن تتحدث عن المواطنة. تتحدث عن الأرقام عندما يجب أن تتحدث عن البشر. ينقصها البُعد والرؤية.
أما السياسة المستنيرة، فيجب أن تتخذ قرارًا بسيطًا: التوقف عن “إدارة” وجود المواطنين الجدد، والبدء في بناء مستقبل المدينة معهم.

وهذا يعني الاستثمار الحقيقي في اللغة. ليس ساعتين أسبوعيًا في غرفة كئيبة، بل دورات منتشرة في الأحياء، وفي المدارس، وفي المكتبات. ويعني مرافقتهم نحو عملٍ حقيقي، لا نحو “غيتوهات” وظيفية ينتهي إليها دائماً الأشخاص أنفسهم. ويعني دعم إنشاء المشاريع، والأنشطة التجارية، والأماكن التي تضيف قيمة، لا مجرد أيدٍ عاملة.
وقبل كل شيء، يعني مواجهة عقدة السكن: ضمان وصول عادل، توفير أدوات للحماية، الوساطة مع الملاك، تشجيع الإيجار بأسعار معتدلة، وجعل الاسم “الغريب” ليس عقبة لا يمكن تجاوزها.

المواطنون الجدد ليسوا مشكلة يجب حلّها، ولا كتلة يجب إدارتها. إنهم، بالمفهوم الأكثر حرفية، احتمال مستقبلنا.
المدن التي فهمت ذلك أصبحت أكثر شبابًا، وأكثر ديناميكية، وأكثر قدرة على الصمود. أما المدن الأخرى، فما تزال تشيخ وتكرر نفسها، مثل ممثلين يؤدّون الدور نفسه منذ وقت طويل.

ربما المسألة كلها تكمن هنا: الأمر لا يتعلق بـ“اندماج” كما نفهمه عادة، لأن دمج شخص ما يعني إبقاءه على الهامش مدة كافية لنقرر نحن متى وكيف نسمح له بالدخول.
بل يتعلق الأمر بالتحوّل. بالشجاعة لإعادة تخيّل المدينة كمكان يتغيّر بفضل الذين يحيونه—جميعهم، بلا استثناء. وبقبول أن أن نصبح “إيطاليين” هو عملية متبادلة: هم يتعلمون لغتنا، ونحن نتعلم حضورهم.

ربما سيأتي يوم لن نتحدث فيه عن مواطنين جدد وقدامى. سنتحدث فقط عن مدينة. عن بيوت مأهولة. عن شوارع مشتركة. عن مصائر تتشابك أخيرًا دون أن تسقط في مخاوف الأمس.
في ذلك اليوم، لن يكون هناك “نحن” و“هم”. وسترى المدينة نفسها، للمرة الأولى، كاملة.

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