
Ogni tanto, nelle discussioni pubbliche, salta fuori qualcuno che dice: ma davvero dobbiamo rifare il Piano Regolatore? Non ce l’abbiamo già?”.
È un po’ come chiedere se bisogna cambiare le pastiglie dei freni perché tanto i freni “ci sono già”. Tecnicamente è vero. Praticamente è un ottimo modo per finire giù da una collina.
Il Piano Regolatore – quel documento urbanistico che evoca mappe gigantesche, colori, norme, tecnici che parlano difficile – è in realtà uno degli strumenti più concreti con cui una città decide che forma dare al proprio futuro. Anche se non ce ne accorgiamo, tocca la vita di tutti: dove abitiamo, dove lavoriamo, quanto tempo passiamo in coda, quanta aria respiriamo, quanto verde vediamo dalla finestra.
Parliamo di Torino, ma potremmo parlare di Bologna, Genova, Firenze, Palermo e di molte altre città italiane che condividono problemi molto simili: aree industriali dismesse, periferie che chiedono più attenzione, centri storici delicati, traffico, inquinamento, prezzi delle case che ballano.
Che cos’è davvero un Piano Regolatore
Proviamo a dirla semplice: il Piano Regolatore è il grande patto tra una città e il suo domani. È la regia complessiva che stabilisce cosa si può costruire, cosa si può trasformare, quanto si può densificare, cosa va protetto e dove è meglio non toccare quasi nulla.
Non è solo una mappa con scritto “qui residenziale, qui commerciale, qui industriale”. È la bussola che decide dove avranno senso i servizi, dove verriverà incentivata la rigenerazione urbana, dove si punta a cucire ferite aperte nel tessuto della città e dove, invece, ci si impone di fermarsi per non consumare altro suolo.
In altre parole, è lo strumento che impedisce alla città di crescere come un groviglio di cavi nella borsa del computer: tutto mischiato, niente etichette, e alla fine non trovi più neanche il caricabatterie.
Perché non può restare uguale per trent’anni
Molte città italiane hanno Piani Regolatori che vengono da altri tempi. Erano figli di un’epoca in cui si pensava che “più cemento” significasse automaticamente “più sviluppo”, quando lo smart working era fantascienza, la mobilità si immaginava quasi solo in auto e i cambiamenti climatici erano, al massimo, un capitolo in fondo a qualche rapporto.
Nel frattempo il mondo è cambiato a una velocità imbarazzante. Sono cambiati i modi di lavorare, di muoversi, di abitare. Sono cambiati i costi dell’energia, la sensibilità ambientale, le forme di disuguaglianza sociale, i bisogni delle famiglie. È cambiata la geografia delle città: alcuni quartieri si sono svuotati, altri sono esplosi, zone un tempo periferiche oggi sono centrali, e intere aree industriali sono rimaste sospese in un limbo.
Usare un Piano Regolatore vecchio per governare tutto questo è come usare una mappa del 1998 per cercare la colonnina di ricarica dell’auto elettrica. Puoi provarci, ma non finirà bene.
Aggiornare il Piano Regolatore serve esattamente a questo: mettere in sintonia regole e realtà. Se cambia tutto, devono cambiare anche gli strumenti con cui organizziamo lo spazio in cui viviamo.
Che cosa cambia, concretamente, quando lo aggiorni
Quando una città decide di mettere mano al proprio Piano Regolatore, in realtà sta lavorando su diversi piani contemporaneamente, anche se spesso non li chiama così.
Da un lato c’è il tema dell’accessibilità. Un Piano aggiornato può avvicinare servizi e persone, ridurre gli spostamenti inutili, connettere meglio quartieri che oggi si parlano poco, dare un senso ai nodi del trasporto pubblico. Vuol dire provare a ridurre quel tempo di vita che oggi buttiamo nel traffico, sui mezzi affollati, nelle tratte progettate male.
Poi c’è l’uso intelligente del territorio. In molte città – Torino, ma anche Genova, Milano nell’hinterland industriale, Napoli e la sua area metropolitana – ci sono capannoni vuoti, vecchie fabbriche, spazi abbandonati o sottoutilizzati. Un Piano Regolatore moderno non ragiona più solo in termini di “nuove espansioni”, ma di riuso, rigenerazione, recupero. Ogni area che rigeneri è consumo di suolo in meno altrove, ed è anche un pezzo di città che smette di essere un buco nero.
E poi c’è il futuro, quello vero, non lo slogan. Un Piano Regolatore guarda avanti di decenni: si chiede dove potrà crescere la città senza implodere, come la si protegge da alluvioni e ondate di calore, dove ha più senso sviluppare nuovi poli universitari o sanitari, come rendere coerente la rete del trasporto pubblico con le trasformazioni urbane, come incastrare produzione, logistica e residenza senza creare bombe sociali o ambientali.
La città è anche una miscela: tradizioni, storie, quartieri che vivono di identità
C’è poi un aspetto che spesso passa in secondo piano quando si parla di Piano Regolatore: non deve solo “mettere ordine” e guidare le trasformazioni, ma deve anche saper valorizzare la miscela unica che vive in certe parti di città.
Ogni grande città ha quartieri che sono il risultato di una stratificazione lunga: case popolari accanto a palazzi borghesi, cortili industriali trasformati in studi creativi, botteghe storiche incastrate tra bar nuovi di zecca. Non sono solo zone da tutelare con qualche vincolo in più: sono luoghi in cui l’identità urbana si è sedimentata e continua a evolversi.
Un Piano Regolatore serio non arriva lì con il pennarello indelebile per congelare tutto, né con la gomma per cancellare ciò che non è “moderno abbastanza”. Deve fare un lavoro più sottile: riconoscere il valore di questi tessuti storicizzati, accompagnarne le trasformazioni senza sterilizzarli, evitando sia la museificazione che la gentrificazione brutale.
Vuol dire accettare che in certi quartieri la forza sta proprio nella miscela: attività artigianali e nuova imprenditoria, residenze di fasce diverse, spazi culturali, socialità di strada, memoria e innovazione che convivono nella stessa via. L’urbanistica, in quei contesti, non è solo decidere dove si può costruire, ma capire come si protegge e si rinnova una storia collettiva senza trasformarla in sfondo per una brochure immobiliare.
Il vero punto: serve coraggio (e uno sguardo più lungo dei confini comunali)
Aggiornare un Piano Regolatore richiede coraggio politico, su questo non ci piove. Significa scegliere delle priorità, dire dei sì e dei no, scontentare qualcuno, spiegare perché non tutto è possibile ovunque. Fin qui, tutto sommato, è ancora la parte “normale” della faccenda.
Il punto è che oggi non basta più il coraggio dentro i confini della singola città. Serve anche allargare lo sguardo, almeno alla prima cintura. Torino, Bologna, Firenze, Genova, Palermo non vivono dentro i loro limiti amministrativi: sono il cuore di sistemi metropolitani più grandi, dove ogni giorno migliaia di persone abitano in un comune, lavorano in un altro, studiano in un terzo e fanno la spesa in un quarto.
Le linee sulla mappa dicono dove finisce un territorio comunale, ma la vita reale se ne infischia. La mobilità, l’uso del suolo, i prezzi delle case, la distribuzione dei servizi, perfino il verde pubblico: tutto si muove in un ecosistema più ampio.
Se una grande città decide di concentrare nuove funzioni in certe aree senza confrontarsi con la cintura, i comuni vicini ne subiranno gli effetti: più traffico in ingresso e in uscita, maggior pressione sui trasporti, nuove esigenze di parcheggi, scuole, servizi. E succede anche il contrario: se un comune della cintura autorizza un’enorme area commerciale o un nuovo quartiere residenziale, la città centrale si ritrova con flussi di auto, pendolari e bisogni che non aveva previsto.
Un Piano Regolatore che guarda solo “dentro il cartello” è semplicemente incompleto. L’inquinamento non si ferma al confine comunale, gli ingorghi nemmeno. Le aree industriali dismesse importanti, i grandi nodi ferroviari, le tangenziali, i poli logistici: molto spesso tutto ciò che è davvero strategico sta proprio sulla soglia tra la città e i comuni limitrofi. Se ognuno pianifica per conto suo, si ottiene un patchwork di scelte scollegate, anni persi a rincorrersi e grandi occasioni sprecate.
Pensare il Piano Regolatore in chiave metropolitana, almeno fino alla prima cintura, vuol dire riconoscere che il destino della città e quello dei comuni che la circondano sono intrecciati. Vuol dire sedersi allo stesso tavolo e dire: “Disegniamo insieme lo spazio in cui le persone vivono davvero, non quello che ci raccontano le statistiche”.
E qui il coraggio serve doppio. Perché non si tratta solo di prendere decisioni difficili all’interno del proprio Comune, ma di accettare che alcune scelte strategiche vadano condivise, coordinate, pensate insieme. È più faticoso, certo. Ma senza questa visione, qualsiasi Piano Regolatore rischia di nascere già zoppo: moderno sulla carta, ma incapace di governare il territorio che esiste oltre il perimetro amministrativo.
Chi ci guadagna, alla fine
Spesso sembra un dibattito da tecnici, ma i benefici sono molto concreti.
Ci guadagna chi vive nei quartieri, se il Piano ripensa gli spazi pubblici, rende più raggiungibili scuole, servizi, parchi, riduce il traffico di attraversamento e rende i luoghi più vivibili. Ci guadagna chi lavora, se la città è progettata in modo da ridurre i tempi morti negli spostamenti e da connettere meglio aree produttive, poli di innovazione e reti di trasporto.
Ci guadagnano le imprese, se le regole sono chiare e stabili nel tempo, se sanno dove la città intende crescere, dove intende rigenerare, dove intende proteggere. Ci guadagna l’ambiente, se il consumo di suolo viene limitato, se le aree dismesse vengono recuperate invece di lasciare nuove cicatrici, se la città si organizza per rispondere sul serio alla crisi climatica.
E, anche se non fa mai titolo, ci guadagna la salute pubblica: meno inquinamento, meno rumore, più verde, spazi più sicuri e meglio pensati, soprattutto nelle periferie.
In conclusione
L’urbanistica non è un gioco di squadra tra tecnici, codici e tavole colorate. È la forma concreta con cui una comunità decide come vuole vivere, muoversi, incontrarsi, crescere. Aggiornare il Piano Regolatore non è una fissazione burocratica, ma un atto di responsabilità verso chi abita la città oggi e verso chi la abiterà domani.
Non è un documento polveroso, è un pezzo di futuro.
E quando lo si guarda così, anche quelle mappe piene di colori cominciano a sembrare un po’ meno noiose e un po’ più nostre.
