Un viaggio dentro la stanchezza, fino al punto in cui capisci che non è il momento di smettere.

Quello che non dico mai: la mia crisi con la politica

Quello che non dico mai: la mia crisi con la politica

C’è un momento, in ogni percorso, in cui ti accorgi che ciò che stai facendo non ti accende più. In questo caso parliamo della politica. Non è più l’adrenalina della campagna elettorale, né la sensazione di poter cambiare davvero il corso delle cose.
A volte diventa fatica.
Un senso di pesantezza sottile che si accumula, un incontro dopo l’altro.
E arriva quella frase che non pronunci ad alta voce, ma che ti gira in testa come un’eco, anche e soprattutto quando i pensieri sembrano più leggeri: “Non ho più voglia.”

Ecco, io ci sono arrivato.

Non è uno sfogo impulsivo, ma una resa dei conti lucida: gli ultimi mesi – il lavoro che ti tira da ogni parte, la vita personale che ti presenta il conto, le responsabilità che aumentano invece di diminuire – ti scavano dentro. A un certo punto ti chiedi se stai ancora dando qualcosa, o se stai solo tenendo tutto in piedi per semplice inerzia.

La politica (anche e soprattutto per un civico) può togliere molto.
Ti chiede tempo, energia, lucidità, perfino parti di te che non sempre hai voglia di mostrare. Ti chiede di proteggere spazi che nessuno vede e di risolvere problemi che nessuno sa spiegare.
E quando la vivi così, è normale che la voglia di scappare venga fuori: forte, quasi liberatoria.

La mia storia ha una particolarità: io non arrivo da un partito tradizionale.
Vengo da una lista civica, da un’esperienza che nasce dal basso, da persone che hanno deciso di mettersi in gioco non per carriera, ma per un’idea concreta di città. Persone con sogni e visione. Persone deluse dall’approccio tradizionale.
Ho sempre creduto – e continuo a crederlo – nel civismo: nel fatto che cittadini “normali”, con lavori veri, famiglie vere, problemi veri, possano sedersi ai tavoli dove si decide e provare a cambiare le cose da lì.

E forse è proprio questo che rende più forte la crisi, oggi.

Perché viviamo un tempo di smarrimento dei partiti: si inseguono leader, si consumano identità, si cambiano sigle e contenitori, ma spesso si fa fatica a riconoscere un “noi” credibile.
In mezzo a questo vuoto, il civismo dovrebbe essere una risposta: un luogo dove si sperimenta, si ascolta, si costruisce. Ma se anche chi arriva da lì comincia a pensare di mollare, allora sì, qualcosa si incrina.

Eppure, mentre penso di mollare, succede qualcosa di semplice: mi guardo attorno.
Vedo i territori che ho cercato di tutelare, i progetti che ho contribuito ad aprire, le persone che hanno trovato in me un punto di riferimento anche solo per un confronto, un’idea, un dubbio.
E soprattutto vedo che, se mi sfilo, non è detto che arrivino automaticamente altri a prendere il mio posto.
Molte battaglie che mi stanno a cuore semplicemente… non le farebbe nessuno.
O finirebbero in mano a logiche di appartenenza, correnti, equilibri interni che con la città reale non hanno nulla a che fare.

È lì che capisco che il problema non è “fare politica”, ma come la sto facendo.

La politica che logora è quella dell’onnipresenza: del dire sì a tutto, del tappare ogni buco, del voler risolvere ogni nodo. Del comparire in ogni foto (questa parte la odio: all’inizio mi faceva ridere, ma adesso la trovo davvero terribile).
Quella in cui ti convinci che, se non ci sei tu, qualcosa si rompe.

La politica che ha senso, invece, è un’altra.
È quella in cui scegli due o tre cose e ci metti la testa, il cuore e il giusto tempo.
È quella in cui ti permetti di dire qualche no, senza sentirti colpevole.
È quella in cui costruisci persone, non dipendenze.
È quella che ti ricorda da dove sei partito: da una lista civica, da un gruppo di persone convinte che la città non fosse proprietà dei partiti, ma di chi la abita.

Perché la verità è semplice: non devo essere ovunque.
Devo essere dove riesco a contare e ad avere un peso specifico.

E allora, se resto – se continuo – non è per inerzia.
Non è perché “si deve”, né per abitudine, né per paura di deludere qualcuno.
È perché posso ancora spostare qualcosa.
Posso ancora provare a fare da ponte tra mondi che non si parlano.
Posso ancora dare un contributo netto nei pochi temi che sento miei, davvero miei (PERIFERIE, Decentramento, servizi di prossimità; cultura come infrastruttura territoriale; ambiente, sostenibilità; economia sociale, welfare di comunità; partecipazione e cittadinanza attiva; innovazione nei processi pubblici, PERIFERIE).

E posso farlo senza bruciarmi.

Questa, forse, è la parte più difficile da ammettere: non serve mollare tutto.
Serve cambiare forma.

E mentre lo scrivo mi rendo conto che continuare non significa restare identico a prima, o sacrificare pezzi di vita.
Significa ritrovare un senso più selettivo e forse più adulto.
Significa, per me, continuare a credere nel civismo proprio adesso, quando i partiti arrancano, quando tanti si sentono delusi, quando l’istinto sarebbe quello di tornare a casa e chiudere la porta.

La voglia di mollare, ogni tanto, torna. Fa parte del gioco. È un segnale, non una sconfitta.

Ma poi c’è un’altra voce che rimane, più silenziosa ma più vera: quella che ti ricorda che non fai politica per la politica.
La fai per la città, per chi verrà dopo di te, per le persone che vedi ogni giorno, per i tuoi figli, perfino per quella parte di te che, nonostante tutto, crede ancora che un’esperienza civica possa tenere accesa una luce nuova nel buio dei partiti.

E allora sì: continuo.
Magari in modo diverso, più sostenibile, più selettivo.
Ma continuo.

Perché quando puoi incidere davvero, anche solo un po’, e quando credi che il civismo sia una delle poche strade oneste in questo tempo confuso, è un peccato enorme tirarti indietro proprio adesso.

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