Due mondi che potrebbero parlarsi, se solo scegliessero lo stesso ritmo.

I ragazzi tra i quattordici e i venticinque anni non sono disinteressati.
Hanno solo una velocità diversa dalla nostra.
Vanno dritti, cambiano rotta in un attimo, capiscono in un attimo se qualcosa ha senso oppure no.
Noi, invece, abbiamo la lentezza di chi ha imparato a convivere con mille passaggi, attese, procedure. È un’altra epoca che occupa lo stesso spazio. Forse!
Me ne sono accorto una volta, una situazione piccola, banale, ma chiarissima.
Ero in una sala d’attesa, non importa quale, una di quelle dove devi fare una cosa per la quale ci vorrebbero due minuti, ma ne passano trenta. Davanti a me una ragazza: zaino, Airpods, e quell’aria di chi non ha paura del mondo ma comincia a sospettare che il mondo abbia paura di lei.
Aveva un modulo in mano. Una pagina. Una firma. Nulla.
Eppure era bloccata. Non perché non volesse farlo, ma perché per ogni domanda serviva una conferma, e per ogni conferma serviva un passaggio, e per ogni passaggio serviva qualcuno che in quel momento era “un attimo, arrivo subito”. E poi, il display del numerino che non avanzava mai!
La guardavo, e vedevo nelle sue espressioni non disinteresse: vedevo frustrazione.
La frustrazione pulita di chi non capisce perché il mondo si ostini a complicare ciò che potrebbe essere semplice.
Lei era veloce.
Il sistema no.
Ci capita spesso di dire che i giovani “non hanno voglia di impegnarsi”.
È comodo crederlo. Ci evita la fatica di ammettere che, molto spesso, siamo noi a non essere all’altezza del loro ritmo.
Ci comportiamo come se avessimo tutta la vita davanti e il tempo fosse un bene superfluo:
riunioni infinite, scadenze poco chiare, decisioni che circolano piano. Poi ci stupiamo se un ventenne non ci trova niente di attraente.
Attenzione, però: la responsabilità non è solo degli adulti.
In molti ragazzi c’è una certa pigrizia verso la complessità, un’idea un po’ fragile che tutto debba essere immediato, semplice, senza intoppi. Ma è anche vero che, se fin dalla prima volta che provi a fare qualcosa per gli altri ti ritrovi dentro una macchina che gira lenta, è difficile credere che valga la pena restarci.
Eppure li ho visti, quando li coinvolgi sul serio.
Quando gli dai un compito chiaro, un obiettivo che non si perde per strada. Portano una freschezza che noi non abbiamo più, fanno domande che nessuno aveva il coraggio di fare, spingono avanti cose che per noi sembravano destinate a restare ferme.
Non dobbiamo diventare veloci come loro. Non ne saremmo capaci.
Dobbiamo solo capire che la loro velocità non è un problema: è la chiave del mondo in cui vivono.
Finché continueremo a muoverci come se fosse sempre “tanto c’è tempo”, continueremo a perderli.
E loro, giustamente, continueranno ad andare altrove. Non per disinteresse, ma per incompatibilità di ritmo.
Il punto è semplice: non sono loro ad avere un problema con la società.
Siamo noi che, a volte, sembriamo una pagina web che fatica a caricarsi.
Prima o poi dovremo decidere come aggiornare il sistema o continuare a chiedere ai ragazzi di aspettarci mentre guardiamo la rotellina che gira.
I ragazzi di oggi, è vero, viaggiano a una velocità che a noi può sembrare un altro mondo. Ma ecco il punto: questo non è un problema, è una dinamica naturale. È una di quelle cose che succedono da sempre: ogni generazione ha la sua velocità, il suo ritmo, e il divario tra giovani e adulti non è una novità di oggi. È semplicemente il modo in cui la vita scorre.
Questa differenza di ritmo, non dobbiamo vederla come un ostacolo. È parte del gioco.
È così che funziona il mondo: i giovani corrono, gli adulti cercano di tenere il passo, e alla fine, quando va bene, ci si incontra a metà strada.
Non è un problema da risolvere, è solo la vita che continua a scorrere.
