L’Europa che funziona, l’Italia che deve scegliere.
Allineo gli appunti come si accorda una chitarra: non per fare scena, ma per trovare il tono che regge tutto. Quello che voglio dire tiene insieme clima, energia e tecnologia come tre voci dello stesso brano. Le sento così perché vivo i sistemi dall’interno. Scegliere, per me, è libertà proprio in questo senso: scegliere è dare una forma affidabile al mondo che abitiamo.

Il clima non è un notiziario: è il paesaggio che si sposta di qualche metro ogni anno. In Piemonte lo vedi nelle vigne. Quando le estati si scaldano, la vite accumula più zuccheri e perde acidità: l’uva matura in anticipo, il vino sale di grado alcolico. Non è un capriccio, è fisica semplice: più calore, più zucchero, più alcol. Per tornare in equilibrio si cerca quota, perché l’aria si raffredda salendo (circa sei decimi di grado ogni cento metri): in pratica, con 300 metri in più “recuperi” quasi due gradi termici e riporti il Barbera su una linea più tesa, capace di tenere insieme freschezza e struttura. La nocciola racconta la stessa storia con un altro accento. La Tonda Gentile ha bisogno di primavere umide ma non fredde, estati calde ma non roventi, e acqua regolare quando il seme si riempie: se l’aria brucia troppo o l’acqua manca nel momento sbagliato, crescono i frutti vuoti, calano i calibri, la resa si spezza; e gli insetti “nuovi”, portati da inverni più miti, chiedono battaglie che l’albero non sosteneva. Sono dettagli agricoli, certo; ma dicono una cosa semplice: adattarsi non è un’idea, è una pratica.
Per questo chiamo l’adattamento un’industria della cura. Non è rassegnazione: è diventare adulti. Vuol dire trattare l’acqua come bene finito e condiviso, pianificare l’uso del suolo sapendo che i fiumi hanno memoria, cambiare tecniche e colture con l’agronomia di oggi, non con quella dei ricordi. Vuol dire formare persone capaci di tenere insieme mappe, dati, stagioni e decisioni; università e istituti tecnici come officine dove si impara a mettere le mani nei sistemi reali. Quando il territorio respira, le comunità respirano.
L’energia è la stessa storia vista da un’altra finestra. Le rinnovabili oggi sanno essere economiche e pulite, ma la sera resta sera: serve ciò che tenga in equilibrio la rete quando il sole tramonta e il vento tace. Non esistono bacchette magiche, esiste un mix ben progettato. Io lo penso così: elettrificare dove rende di più (case, mobilità leggera), spingere su solare ed eolico dove hanno senso, usare l’idrogeno per i mestieri duri dell’industria, e garantire una base stabile che non oscilli al cambiare del cielo. L’Italia importa troppa energia: non è una colpa, è una vulnerabilità. Si corregge con interconnessioni intelligenti, accumuli mirati, regole chiare e una sequenza credibile di uscita dai combustibili più sporchi. È come dirigere un ensemble: se ognuno entra al momento giusto, la musica è solida senza diventare rumorosa.
Altrove hanno già trovato un passo che invidio senza gelosia. Gli olandesi hanno imparato a dare spazio al fiume: arretrano gli argini quando serve, non giocano a chiudere l’acqua in gabbie che prima o poi si spezzano. I danesi trattano ogni chilowattora risparmiato come una piccola centrale costruita: l’efficienza è cultura, non un progetto a scadenza. I portoghesi hanno messo il sole a libro mastro con aste intelligenti e una rete che regge, gli spagnoli hanno semplificato davvero l’autorizzazione dell’eolico dove si può e dove si deve. I francesi hanno fatto dell’affidabilità un bene pubblico: manutenzione e controllo come atto politico, non come nota a margine. La Finlandia scrive bioeconomia nei boschi, non nei comunicati stampa. Non è una gara a chi è più virtuoso: è un promemoria su cosa significa prendere sul serio la realtà.
Dentro questo quadro c’è la bioeconomia, che non è un profumo verde ma una meccanica di territorio. Foreste gestite come patrimonio con rotazioni e ripiantumazioni che ringiovaniscono gli assorbimenti; suoli che ritrovano vita con rotazioni, coperture, materia organica; filiere che trasformano scarti in valore senza peggiorare l’aria che respiriamo. È sviluppo vero, perché crea lavoro qualificato e riduce rischi futuri. È anche un’educazione collettiva: capire che il “naturale” funziona quando lo tratti come un sistema, non come un fondale.
La tecnologia, in tutto questo, è la grammatica. Amo le cose che ripartono sempre, quelle che non si notano perché fanno quello che devono. È un’estetica dell’affidabilità che diventa etica quando entriamo nella sfera della cura: un continente che invecchia non può basarsi solo sulla buona volontà delle famiglie. La tecnologia giusta libera tempo umano: robot che sollevano senza ferire, sensori che avvisano senza invadere, piattaforme che collegano in modo rispettoso chi ha bisogno e chi può aiutare. Non sostituire le relazioni: proteggerle. Una casa connessa non è una casa sorvegliata, è una casa che respira meglio.
Questa visione tiene perché è la mia biografia a tenerla. Nelle aule del Comune ho visto che la distanza tra cittadini e decisioni si accorcia quando i processi sono chiari e i tempi affidabili. Ho capito che il paesaggio è un bene pubblico silenzioso: quando funziona, scompare; se lo trascuri, torna a chiedere conto. In band ho imparato l’arte di lasciare spazio: è la squadra che fa la differenza, il singolo apre la porta e poi si sposta di lato. Lo chiamo “circuiti umani”: connessioni che fanno scorrere corrente gentile, dal quartiere alla sala concerti.
E qui, lasciamelo dire senza orpelli: l’inerzia del governo Meloni è la forma più elegante della rinuncia. Rinuncia a chiamare le cose con il loro nome, rinuncia a scrivere una sequenza credibile di scelte, rinuncia a trattare l’affidabilità come bene pubblico. Ci si perde in annunci reversibili, si cambiano le regole a stagione, si trasformano i piani in coreografie e i rischi in comunicati. È come mettere una toppa sul tetto mentre entra acqua dal pavimento. Non è coraggio, è manutenzione rimandata: la più costosa di tutte.
Alla fine è tutto lì: clima, energia, tecnologia come tre modi per dire responsabilità. Se non possiamo misurare una scelta, è retorica; se non sappiamo spiegarla in due frasi, è marketing. Io preferisco il passo che tiene, la decisione che porta conseguenze buone, la bellezza che nasce dalla precisione. Scegliere è libertà perché costruisce sistemi che non ti tradiscono: un territorio capace di adattarsi, un’energia che non ti compra, strumenti tecnici al servizio delle persone. Quando succede, te ne accorgi subito: l’aria smette di tremare, il fiume sta al suo posto, la voce arriva chiara, la comunità si riconosce.
È il momento in cui la politica torna musica e la musica torna politica: non perché fa rumore, ma perché finalmente suona.
