Capitolo II – Cronaca dalla sedia accanto

(Estratto non autorizzato, ritrovato nel taccuino di Elisa insieme a una macchia di vino bianco e un biglietto da visita del ristorante indiano)

Non ricordo cosa indossassi quella sera.
So solo che l’ho scelto senza pensarci: la normalità.

Quando Karim ci ha invitati, volevo andare.
Ma dentro di me si annidava un leggero imbarazzo.
Pochi giorni prima Paolo aveva festeggiato il suo compleanno e non ci aveva invitati.
Lui, Paolo e Karim sono amici da sempre, e la compagna di Paolo ad essere la vecchia novità.
Per qualche mese era stata la mia grande amica; poi è partita con le lezioni di vita non richieste. Liturgia fissa: lei monologava sui suoi guai, io facevo la platea. Ci siamo allontanate male. Male!

Ho pensato: se non ci vado, sembra che scappi; se ci vado, sembra che ci tenga.
Così ho fatto la cosa che so fare meglio: ho finto equilibrio.

Lui ha detto subito sì.
Perché è uno che dice sempre sì, anche quando dovrebbe restare fermo.
Era chiaro che non lo faceva per Karim: voleva occupare spazio, riprendere terreno perduto.
Ma in fondo, anche io ero contenta di fare qualcosa con lui.
Guaio più, guaio meno.

Federico era l’unico motivo per non esserci.
Non avrei mai immaginato che Karim lo invitasse, ma evidentemente Chiara aveva preparato la trappola con cura.

Quell’uomo mi è rimasto addosso come un odore che non se ne va, anche dopo dieci docce.
Non lo amo, credo. Non lo voglio, credo.
Ma la sua presenza mi mette addosso una forma di vergogna che non passa.
Non tanto per quello che è successo, ma per quanto poco valessi per lui.

Mi voleva, ma solo in casa sua.
Io sono diversa: mi lego emotivamente, lui non ne è capace.
Aveva sempre ripetuto, come un mantra: “siamo qui solo per divertirci.”
A volte mi sono anche divertita.

Traduzione: MI PIACI finché jeans e camicetta prendono polvere sul bordo del letto e le lenzuola hanno un motivo per restare calde

Lui — il mio compagno — quella sera era nervoso.
Lo conosco.
Beve quando ha paura.
Sorride quando vorrebbe urlare.
Ha lucidato la macchina per sentirsi al comando di qualcosa.
Io l’ho lasciato fare: certe vanità sono un modo per sopravvivere.

Arrivati al ristorante, ho visto Federico subito.
Era lì, con il suo sguardo che finge profondità e un sorriso sincero, una mano in tasca e una sul bicchiere.
Ho sentito un gelo allo stomaco.
Non desiderio: solo fastidio.
Mi sono detta: non gli darò nemmeno un secondo del mio sguardo.
Poi, naturalmente, l’ho cercato — in maniera discreta — per tutta la sera.

A tavola mi è capitato accanto Speedy, che parlava come se avesse vinto un concorso per riempire il silenzio.
È simpatico, sì, ma anche di una semplicità commovente.
Si lamentava di chi urla alle vecchiette in piscina — e intanto urlava lui, ma non se ne accorgeva.
Io lo ascoltavo per dovere civico. Ogni tanto rispondevo e sorridevo, gentile.
E ogni volta lui mi diceva:

“Non allisciare il pelo al lupo.”

Come se bastasse un sorriso per offrire il paradiso.

Dall’altra parte del tavolo, Stefano, quello che dice di fare l’informatico ma in realtà studia filologia comparata, ha iniziato a spiegare l’etimologia della parola curry.
Muoveva le mani come il batterista dei Red Hot Chili Peppers, scuotendo la testa a ritmo di una lingua che solo lui sentiva.
Ogni tanto gridava “dal sanscrito!”, come fosse un ritornello.
Nessuno lo ascoltava, ma lui era felice.
A quel punto ho capito che la cena era diventata una jam session semantica: ognuno suonava il proprio disagio con strumenti diversi.

Chiara, invece, aveva ordinato il menù “vegetariano autentico” e poi ha chiesto se il pollo al curry “contasse come pollo spirituale”.
Diceva di essere in un periodo di purificazione, ma solo fino al dolce.

Intanto, Paolo continuava a riempire il suo bicchiere come se il vino potesse risolvere le crisi diplomatiche.
Ogni volta che Karim passava con la bottiglia, lui diceva “solo un dito”, ma poi aggiungeva che era un dito “orientale”, quindi largo.

E poi mi sono chiesta: Speedy sapeva della storia con Federico? Gli altri sapevano?
O era rimasto tutto fra pochi, come una barzelletta che non fa più ridere?

Lo guardavo e pensavo: gli uomini hanno un talento straordinario per confondere attenzione con tentazione.
E noi donne, quando siamo stanche, li lasciamo credere.

Al mio fianco, il mio compagno mi osservava.
Ma i suoi occhi erano tutti per Federico.
Parlava con Sandro, ma guardava lui, curioso. Furioso.
Non geloso — peggio: all’erta.
Aveva quella tensione sottile che conosco bene, la stessa che precede le sue ironie migliori e i suoi errori peggiori.

Poi è successo tutto.
Speedy, il vino, Federico.
Quel momento in cui si alzano le voci e la serata diventa un esperimento sociale.

Io sono andata in bagno e, quando sono tornata, ho continuato a sorridere come se fossi un’invitata neutrale in un film che non mi riguarda.
In realtà avevo il cuore che batteva in gola.
Era cambiato tutto.

Quando Federico è uscito, ho capito che la serata era finita.
Ma non per lui: per noi.
Perché certe cose, anche se non le dici, cambiano la grammatica di una coppia.
Da quella sera, per mesi, tra me e lui — quello che non si nomina — non c’è più stata una vera frase.
Solo parentesi.

Ora lo so: nessuno di noi due, in quel momento, voleva davvero l’altro.
Volevamo solo avere ragione.
E in questo, paradossalmente, ci siamo amati più di quanto pensassimo.

Quando ripenso a quella cena, non ricordo più i sapori.
Solo i rumori dei bicchieri, il vino versato, il profumo di curcuma che copriva tutto.
E la sua voce, a fine serata, che diceva:

“A noi.”

Come se bastasse un brindisi per dimenticare quello che non si può più dire.

Anche io amo il curry.
Almeno lui, il giorno dopo, non finge di ricordarsi di me.

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